Manuela BaroneMi sono sempre chiesta da dove arrivi l’implacabile e crescente tendenza degli ultimi anni che colpisce giovani signori e borghesissime donzelle, dai trenta in su, a far finta di capire qualcosa di vino.
Cosa vi costa dire che non ne capite una trifola? Vi piace agitare il bicchiere per darvi un tono? Sigari e sigarette non erano forse sufficienti? Volendo, potreste imitare una tipa vista da me qualche settimana fa: parlava di arte fumando la pipa. Davvero un bel soggetto.
Da qui la mia idiosincrasia verso il vino e tutto ciò che lo riguarda, avendo lavorato per anni nella ristorazione, mestiere che svolgerei tutt’ora se un barman impazzito non avesse deciso che doveva essere lei l’unica donna del personale. Avete letto bene, ho scritto barman. Non fate finta di non capire.
A volte però i nodi vengono al pettine, e qualche tempo fa, complice il mio percorso didattico attraverso la pasticceria e la cucina più in generale, ho dovuto interessarmi al vino per la pura necessità di comprendere il senso degli abbinamenti, tra i nobili derivati dell’uva e ciò che mettiamo nei nostri piatti e viceversa
Superata una prima fase nozionistica è quindi arrivato il momento della full immersion, in quello che considero non solo un fenomeno sociale ma anche un sapere fondamentale da acquisire per raggiungere una preparazione completa o quasi, perché mai si smette di imparare, se hai deciso che da grande vuoi stare tra i fornelli.
Dopo i primi approcci soft, tra visite guidate per cantine e buffet organizzati per sensibilizzare quante più persone a una consapevolezza più profonda del legame tra vino e territorio, sono stata letteralmente buttata nella mischia, e diversamente non potrei dire, in occasione dell’edizione 2011 di “Avvinando Wine Fest”.
Mi viene comunicato di presentarmi alle ore 15 del dieci ottobre presso la Sala Basile dell’Hotel Villa Igea Hilton per assaggiare, in qualità di ospite non giudicante, ventotto vini suddivisi in cinque batterie ordinate per vitigno, denominazione e grado alcolico
Non appena compreso il mio ruolo, e soprattutto dopo aver individuato la mia posizione nella sala ossia: tavolo riservato nonché unico tavolo presente in sala oltre a quello della Commissione, una lieve sensazione di angoscia inizia a serpeggiare in me, a metà strada tra il “che ci faccio qui” e l’individuazione rapida, in stile soldato dei marines, delle più vicine vie di fuga per evitare di passare per una delle tante borghesissime donzelle di cui sopra.
Vengo rassicurata del fatto che il mio parere non conterà affatto, che dovrò restare sobria per quanto possibile e che dovrò fidarmi delle mie sensazioni. Mi dico che forse posso riuscirci e decido di sedermi.
La commissione al lavoroL’atmosfera è quella di un rito vagamente massonico, con un cerimoniere che, nel più religioso silenzio, assaggia i vini per poi esprimere il suo giudizio prima di dare la parola agli altri convenuti e, infine, esprimere un voto, senza poter vedere l'etichetta del vino versato nel bicchiere.
Noi ospiti, invece, sapevamo benissimo cosa stessimo bevendo (per quanto, a me profana, la notizia fosse assolutamente irrilevante) e devo dire che questo mi è stato di grande aiuto per associare blande conoscenze di base a quanto di volta in volta ci veniva servito, ma anche, per esempio, per comprendere cosa differenzia un vitigno da un altro.
Assaggiare, capire un vino, è un’esperienza multisensoriale: devi affidarti all’istinto e affinare i sensi, lasciandoti guidare dai profumi e da quelle percezioni sottili che portano un degustatore allenato a smistare e frazionare un sapore armonico in altri più semplici, valutare eventuali difetti di produzione o di conservazione, riconoscere gli errori e ritrovarsi anche a sorprendersi nell’aver assegnato alti punteggi a cantine emergenti e bocciato altre di fama.
Ho provato del sincero stupore nell’avvicendarsi delle batterie… ogni assaggio era un’avventura nuova, lo scoprire che un terreno di un certo tipo poteva dare quel certo risultato, che un vino poteva essere buono ma poco persistente, oppure che, per quanto non mi piacesse, aveva una sua struttura, una sua precisa identità… altri ancora erano incredibili all’odore ma deludenti al palato.
Temo che accada la stessa cosa con il cibo: se non presti attenzione a quel che stai per mangiare, non ne comprendi a pieno il valore e lo riduci a mero carburante. E forse con il vino si ritrova quel piacere inconfessato di gingillarsi con il bicchiere, per sentirsi coccolare con stile da qualcosa che non stai apprezzando davvero, ma che comunque ti piace. Un plus valore niente male.
Credo di aver trovato più onestà e affinità al mio pensiero sul mondo del vino nei produttori e nei veri addetti del settore. Qualche giorno dopo, a Villa Boscogrande, sono rimasta colpita dalle parole di Massimo Maccianti, responsabile della “Vino&Design” di Reggio Emilia. Sosteneva che è inutile stare lì a far brodo, quando bevi il vino. Devi solo capire se ti piace oppure no. Perciò, miei giovani signori e borghesissime donzelle, se volete essere “trendy”, fatelo in silenzio.
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