Lunedì, 2 Agosto 2010
Il modo ideale per raggiungere l’isola di Pantelleria, per un comodista come sono io, è sicuramente l’aereo, in poco meno di 50 minuti, grazie ad un veloce MD80, da Palermo ci si ritrova quasi teletrasportati in un territorio arabo-lunare. La natura prettamente vulcanica dell’isola ricorda alcune zone intorno all’Etna, dove l’inventiva umana è stata sopraffatta dalla nerissima roccia vulcanica, utilizzata come materiale da costruzione praticamente per qualsiasi cosa; da ciò deriva il caratteristico paesaggio lunare, interrotto soltanto dalle contrastanti bianchissime cupole dei dammusi, che sembrano sorgere dal mare lavico che le circonda; lo spazio rimasto tra le rocce e le cupole è occupato dalle piante di cappero e dalle viti ad alberello basso, cariche di dorato e inebriante zibibbo che, appena arrivato, ho immediatamente assaggiato direttamente dalle piante presenti a casa di Emilia Machì, organizzatrice del workshop di pasticceria “Dolci Sapori Siciliani”; da notare anche le numerose erbe aromatiche che crescono spontanee sull'isola perfino sui cigli delle strade, come il finocchio ingranato, il rosmarino, la lavanda e il finocchietto selvatico, queste sono solo quelle che sono riuscito a riconoscere.
Il dammuso che mi è stato affittato da Giovanni Siragusa, ristrutturato e con tutti i comfort ma soprattutto pulitissimo, era veramente incantevole, godeva di una spendida vista sul mare con la costa tunisina all’orizzonte, incastonato in quello che potremmo definire un vero e proprio park-hotel fatto da ulivi, da qualche palma e dagli immancabili capperi e viti; naturalmente, all'interno del dammuso, non poteva mancare un grande vassoio ricolmo di maturo zibibbo. La prima sera l’ho trascorsa a cena con i genitori di Emilia, Antonio e Antonella, ma l’invito scaturito dalla loro ospitalità mi stava quasi preoccupando quando siamo arrivati all’Hotel Mursia e Cossyra; spesso, infatti, nei ristoranti degli alberghi, la cucina non è certo eccelsa e quindi temevo già per il mio palato. In verità, come ho potuto poi riscontrare coi fatti, i genitori di Emilia, sono due buongustai e non ci tenevano proprio a sfigurare con me ! In un ridottissimo menu, riservato agli ospiti dell'albergo, ho scelto delle “caserecce con pesce spada e finocchietto, poi del “pesce san pietro con patate” e, per chiudere, una “pesca al passito”. Ma andiamo per ordine: secondo il mio parere, un menu ridotto, è già un buon segnale ma naturalmente, per non rischiare, mi sono diretto subito sui piatti che sembravano meno elaborati e quindi con meno ingredienti. Il primo, le caserecce, mi hanno ben impressionato, le materie prime utilizzate erano sicuramente di buona qualità, lo spada doveva essere fresco o al massimo congelato a bordo, il pomodoro era gustosissimo, il finocchetto era stato sapientemente dosato, l’uso pantesco della mollica tostata con le mandorle, a decoro del piatto, lo ha indiscutibilmente impreziosito. Esattamente come piace a me, pochi ingredienti ben dosati e dai gusti perfettamente distinguibili ma in perfetta armonia tra di loro, come un’orchestra ben diretta. Purtroppo c’erano anche dei difetti tecnici, come la pasta un pò scotta, ma il suo ottimo sapore di grano ne permetteva ampiamente la tolleranza, c'era un po’ troppo peperoncino, anche se a me piace, in un servizio in sala, forse, sarebbe stato meglio tenere in conto il fatto che non a tutti potrebbe essere gradito, le bucce di pomodoro erano un po’ troppo abbondanti, altra cosa che a me piace ma che non si dovrebbe lasciare in una pietanza, infine il piatto è arrivato un po’ freddo; insomma, è facile trovare qualcosa che non va in una sala con alcune decine di coperti, ma sulla qualità degli ingredienti e sul risultato finale non si transige: le sensazioni gustative da me provate sono state piacevoli. Il primo è andato benissimo ma per il secondo ? Rischiamo ? Ebbene, il secondo è stato una grande sorpresa, il san pietro con le patate era di una semplicità disarmante. Onore a chi a pensato questo piatto ed ha avuto l’ardire di proporlo, gli ingredienti fondamentali erano solo tre: filetti di san pietro, patate e un po’ di prezzemolo. Le freschezza del pesce era notevole, come d’altronde la sua cottura, magistralmente eseguita, era infatti ancora turgido nonostante fosse perfettamente cotto. Probabilmente tutto ciò è stato possibile grazie ad un grande lavoro di forno, con l’aiuto di qualche erba che non sono stato in grado di identificare; ma la vera sorpresa sono state le patate, anch’esse cotte a puntino e dal buonissimo gusto di… patata ! Unico neo, qualche “cofanetto" di sale sparso qua e là che ogni tanto emergeva insapidendo un pò troppo il boccone. Infine, una semplicissima pesca, tagliata a pezzi diseguali, con un goccio di passito, fresca e non stucchevole, ha liberato del tutto i miei succhi digestivi ormai appagati dall’ottima cena, unico pasto decente durante tutta la mia permanenza a Pantelleria. Il pane era un normale filone dall’ottima farina di grano, purtroppo aiutata con un pò troppo lievito di birra, il vino, secondo quanto mi è stato detto, era uno sfuso della cantina Enopolio, probabilmente un blend di zibibbo e catarratto, vino non degno di nota ma che ha accompagnato senza intoppi tutto il pasto. Al bar dell’hotel, il dopo pranzo è stato però funestato, a mio parere, da un non piacevole passito, sempre della cantina Enopolio, poi però ravvivato da un fortissimo sigaro Toscano Stravecchio offertomi dal sig. Antonio. Cosa può rimanere ormai da fare dopo una simile giornata di viaggio e una cena così appagante ? Ovvio, una bella dormita, la mia è stata breve ma molto proficua.
Foto di Pantelleria
Martedì, 3 Agosto 2010
La giornata l'ho iniziata molto bene grazie alla visita alla cantina Bukkuram di De Bartoli, situata nell’omonima contrada. Alle 8:30 sono stato prelevato dal mio dammuso dall’auto guidata dalla gentilissima Anna Torgler, una simpatica trentina trapiantata a Pantelleria da meno di un anno che si occupa di enoturismo per la cantina in questione. Dopo aver conseguito il diploma di Sommelier e un master del Gambero Rosso in comunicazione enogastronomica, Anna, ha abbandonato i suoi progetti per dedicarsi al suo grande amore: il passito Bukkuram di De Bartoli e naturalmente l’isola di Pantelleria. Marco De Bartoli, ex pilota di rally, ha ereditato tanti anni fa la cantina di famiglia decidendo di abbandonare le corse per il vino, galeotto fu quel vino, a quel tempo il suo marsala, oggi secondo me l'unico degno di tale nome. Nei primi anni 80, De Bartoli, fa parlare di zibibbo e di passito in seguito alla sua collaborazione con il “Conte” Casano di Pantelleria con il quale inizia a vinificare il "Bukkuram" che finalmente vede la luce nel 1983. Agli inizi degli anni 90, in seguito ad alcune vicende interna alla famiglia dei Casano, De Bartoli acquisisce la direzione della cantina e conferma la sua filosofia pantesca sul passito, cioè realizzarlo come si faceva anticamente, preoccupandosi poco delle tendenze del mercato e molto della vigna, rendendo onore al nome Bukkuram, che, tradotto dall’arabo, significa “padre della vigna”. Il passito Bukkuram oltrepassa sensibilmente la quantità di uva passa da disciplinare Doc aggiunta durante la vinificazione, arriva infatti fino al 60-65%, e viene prodotto in circa 5.000 bottiglie. La contrada Bukkuram ha un’esposizione ideale per la produzione del passito, viene infatti spesso battuta dal caldo vento di scirocco, indispensabile per un buon risultato in bottiglia. Ma come fare quando, nel 1989, De Bartoli decise di fare uno zibibbo che esaltasse il territorio senza le dolcezze del passito ? Impossibile utilizzare le stesse uve del Bukkuram, allora è bastato cambiare il territorio, spostarsi a 450 metri di altezza ed esporre il vigneto ai venti di maestrale. Il risultato è stato il Pietranera, uno zibibbo sorprendente in profumi e acidità. I due vini, prodotti da De Bartoli, li ho assaggiati con sensazioni interessanti, soprattutto per il Bukkuram, ma andiamo per gradi e iniziamo dal Pietranera. Il Pietranera 2009, ha confermato in pieno l’origine del suo nome, fiori bianchi ma anche grande sapidità che spiccava già al naso più che in bocca dove però la rotonda mineralità faceva il resto. A primo naso, invece, il Bukkuram 2006, mi ha ricordato un pò’ il marsala, sarà stato un condizionamento dovuto al fatto che De Bartoli produce un ottimo, secondo me il migliore, marsala chiamato “Vecchio Samperi”, oppure le botti usate per il Bukkuram erano state riutilizzate da precedenti affinamenti di marsala, oppure come ultima possibilità, considerando il lungo affinamento del passito di De Bartoli, che arriva fino ai due anni e mezzo, si sono forse sviluppati dei processi ossidativi simili a quello del marsala ? Tre ipotesi difficili da confutare. Altra particolarità che salta al naso è il forte sentore di uva passa tostata che, poi, passa in bocca dove, acidità e dolcezza, si fondono in modo armonico per accompagnare ancora una volta la solita mandorla tostata che, puntuale, si ripresenta anche in bocca. Alla fine, a bicchiere vuoto, ecco qualche erba balsamica, rosmarino quello più distinguibile. Durante la mia visita alla cantina di De Bartoli ho anche conosciuto Alessandro Bonomo, chef del ristorante-pizzeria "Oasi di Venere”, gestito dallo stesso e dalla sorella Rosaria. La cucina di Alessandro è interessante, si avvicina al mio ideale, una cucina pantesca quindi ricca di prodotti del territorio, accoppiati con semplicità senza negare una certa rivisitazione, rimanendo sempre nell’ambito locale, senza contaminazione da parte di prodotti troppo lontani dalla nostra cultura. Sicuramente un locale da approfondire.
Che si fa di pomeriggio ? Che domande, si scopre una cantina relativamente poco conosciuta come quella di Fabrizio Basile, sempre a Bukkuram, proprio di fronte a De Bartoli. Fabrizio è "figlio d’arte", il padre Gaetano, infatti, coltivava le viti e portava la propria uva passa alle cantine che ne facevano richiesta, un giorno del 1995, però, quest’uva viene rifiutata, allora, stizzito, papà Gaetano decide di cominciare a vinificare in proprio. Fabrizio, allora quindicenne, segue subito le orme del padre e si appassiona talmente tanto da dedicarsi completamente al passito. Fabrizio inizia da autodidatta, un po’ da enologo e un po’ da agronomo, il suo passito nasce da tante esperienze negative e molte prove, si potrebbe definire un passito empirico poiché è proprio questo l’approccio che è stato usato nella sua produzione. La moglie milanese di Fabrizio, Simona, lo coadiuva in questa impresa del vino, aiutandolo nell’ azienda oggi costituita da un dammuso e circa sette ettari di terreno vitato. La produzione è di circa 5.000 – 7.000 bottiglie con una buona potenzialità di aumento, i canali di vendita sono dei distributori del nord-Italia ma anche e soprattutto vero enoturismo direttamente in cantina, sempre aperta ai clienti di passaggio. La degustazione si è svolta con l’ausilio di ottimi formaggi selezionati dai Basile e provenienti dall’area di Santa Ninfa in provincia di Agrigento. Primo sale, e primo sale con pistacchio, entrambi di circa un mese, poi, un pecorino al vino di circa quattro mesi, per chiudere con una buonissima caprese. Ho iniziato con uno zibibbo del 2009 chiamato Sorella Luna, un Doc Pantelleria, al naso fresco di fiori bianchi e anche di miele, in bocca piacevolmente acido senza nessun accenno di dolcezza come precedentemente promesso all'olfatto. Il Passito, invece, uno Shamira 2007 appena imbottigliato, portato al naso rivela un’insolita vena salmastra per chiudere con delle mandorle leggermente tostate e miele, poi, in bocca, la mandorla tostata esplode con un lunghissimo finale, la sua dolcezza non sconfinava mai nella stucchevolezza. Per completare l’opera, Fabrizio, mi ha portato anche un bicchiere dello stesso passito ma imbottigliato un anno e mezzo prima e, devo ammettere, che la differenza si notava parecchio; al naso risultava più albicocca e uva passa con tostatura, in bocca, invece, era abbastanza simile al precedente mantenendo la stessa grande tostatura e il piacevole contrasto acidità-dolcezza.
Foto Cantina Basile
Mercoledì, 4 Agosto 2010
Il mercoledì inizia il workshop di pasticceria presso lo Zubebi Resort di Eraldo Siri, altro “straniero” trapiantato a Pantelleria. Eraldo infatti è originario di Alba, in provincia di Cuneo, in pieno Piemonte, ma nel 2004 conosce Pantelleria e rapito dall’isola apre lo Zubebi Resort. In cucina, invece, ho trovato Alba Maria Vetri, originaria di Teramo, ex analista informatica, ha girato il mondo cucinando un po’ dappertutto ma le influenze maggiori gli provengono sicuramente dal Venezuela, dove ha abitato per un certo periodo di tempo, da Roma e dall'Abruzzo, sua regione di origine. La sua cucina è molto “pulita”, infatti Alba, prepara tutto al volo, con materie prime fresche e pochi ingredienti. Il workshop si è svolto dalle 9:30 fino alle 13:30 con un docente d’eccezione, da me ben conosciuto: Saverio D’Anna. Saverio è un classico figlio d’arte, sin dalla tenerà età ha frequentato la pasticceria del padre che in seguito erediterà. Anche lui ha girato il mondo, ma ha lavorato soprattutto in Francia dove ha anche ricoperto incarichi prestigiosi. Scomparso il padre è dovuto ritornare nella sua Palermo per mandare avanti il ben avviato Bar Pasticceria Albatro. Saverio è anche presidente, nonchè uno dei fondatori, dell’associazione ASPEC che raccoglie i cuochi e i pasticcieri siciliani che operano nel rispetto delle materie prime e della tracciabilità delle stesse. I dolci realizzati, con l’attiva collaborazione del pubblico, sono stati la “cassata siciliana”, nella sua espressione più classica, ed un innovativo “gelo di cantalupo”, profumatissimo melone coltivato prevalentemente nella Sicilia occidentale. Le ricette di Saverio sono le seguenti.
CASSATA SICILIANA
PER IL PAN DI SPAGNA:
n. 22 uova intere - gr 500 zucchero semolato - gr.500 farina pl 165 (va bene la doppio zero) - gr.250 amido di mais
PER LA PASTA DI MANDORLA:
kg.1 zuchero semolato - gr.500 farina di mandorla - gr.250 sciroppo di glucosio - gr.175 miele - essenze di mandorla e cannella quanto basta
PER LA CREMA DI RICOTTA:
kg.1 ricotta di pecora fresca - gr.500 zucchero semolato - gr.100 goccine di cioccolato fondente - gr.50 zucca candita a cubetti
PER LA DECORAZIONE:
frutta candita, zucchero fondente
PER LA GLASSA:
n. 2 albumi d'uovo - gr. 200 zucchero a velo
GELO DI CANTALUPO
Lt.1 succo di cantalupo - gr. 350 zucchero semolato - gr. 100 amido di mais - gr. 8 colla di pesce
Foto della prima giornata di Workshop
Il pomeriggio l’ho dedicato tutto alla cantina D’Ancona, una delle più storiche dell’isola. Infatti, Caterina D’Ancona, insieme alla sorella Sara ed alla mamma Angela, mi hanno raccontato l’avvincente storia della famiglia. L’enologo Salvatore D’Ancona, nonno di Caterina e Sara, nel 1920, impiantava una cantina e cominciava a imbottigliare il passito. Bisogna considerare che, in Sicilia, non si è mai imbottigliato molto, anzi, la quasi totalità del vino prodotto, soprattutto a quell’epoca, era venduta come sfuso o come cosiddetto vino da taglio. Bisognerà arrivare agli anni 80, e all’opera meritoria del Sig. Ignazio Miceli, affinché fosse recepito il concetto di imbottigliamento e di qualità del vino da parte delle cantine siciliane. Il nonno di Caterina e Sara, quindi è da considerare un grande precursore di uno sviluppo della vitivinicoltura che è iniziato soltanto negli anni 80 ed ancora, ad oggi, non si è concluso, anche se, di recente, si sono raggiunti importanti traguardi. Nel 1963, a Salvatore D’Ancona, subentra il figlio Antonio, papà di Caterina e Sara, precursore anch’esso, nei gloriosi anni 60, dell’enoturismo, della vendita in cantina ma anche per corrispondenza. Caterina, trovandosi la più coinvolta in cantina, dopo una laurea in letteratura che l’ha portata all’insegnamento in una scuola pisana, ha deciso di tornare sui libri e di laurearsi in viticoltura e enologia. Ma un giorno, arrivata alla fine del suo persorso di studi, incontra il toscano Giacomo Tachis, il più conosciuto enologo italiano, a cui chiede collaborazione nella redazione della propria tesi di laurea, naturalmente sull’argomento “passito”. Tachis, inizialmente titubante, da entusiasta del territorio pantesco, finisce per accettare e addirittura spingere Caterina a tradurre la tesi in un vero e proprio libro sul passito, all’epoca ancora mancante. Ed ecco che, nel 2005, vede la luce “Passito di Pantelleria”, un libro con un titolo, secondo me fuorviante, infatti il pregevole libro racconta per una buona parte della storia e del territorio pantesco, poi affronta l'argomento vino e passito, per poi chiudere addirittura coi dolci tipici di Pantelleria, fornendone persino ingredienti, preparazione e splendide fotografie. Insomma, un completo volumetto che l’appassionato frequentatore dell'isola non può fare a meno di leggere e di possedere nel proprio scaffale; quindi, forse, un titolo più adeguato sarebbe stato “Pantelleria e il suo passito”. In questo libro, Caterina, rivela il suo amore per l’isola e per le sue tradizioni, lasciando scoprire tutta la passione che mette nella produzione del suo vino. In cantina però anche la mamma di Caterina e Sara ha recentemente avuto un’importantissimo ruolo, la sig.ra Angela infatti ha spedito, quasi per caso, una bottiglia di passito al Concorso Mondiale di Bruxelles, mostra itinerante che recentemente si è svolta a Palermo; il risultato si è concretizzato con un’ambita medaglia d’oro che ha sorpreso tutti. In un mondo di passiti fortemente caratterizzati e personalizzati quello di D’Ancona, secondo me, si è distinto per equilibratura, sarà questo che ha procurato consensi tra i giudici del concorso, portando a casa l’importante riconoscimento ? Ho quindi assaggiato il passito D’Ancona, chiamato Cimillya, dal nome dell’omonima località. Il vino al naso sprigiona albicocca e miele, in bocca è pienamente dolce ma non stucchevole ed è perfettamente bilanciato dalla sua piacevole nota acida. Un passito molto classico, pulito, ben bilanciato e profumato, senza arzigogoli particolari e salti mortali fatti in cantina. Il Cimillya viene affinato in acciao per ben 2 anni per poi riposare in bottiglia altri 12 mesi, in degustazione ho infatti assaggiato il 2007, questa sua lunga maturazione senza legno spiega in parte, secondo me, la sua stabilità ed equilibrio al naso ed in bocca. Le sorelle D’Ancona producono anche un moscato Doc e un vino rosso da uve perricone, purtroppo entrambe terminati, neanche una bottiglia rimasta per la degustazione. Alla Cantina D’Ancona ho anche conosciuto due simpatici coniugi, affezionati turisti di Pantelleria, originari del comune di Sgonico, in provincia di Trieste. Con Gianfranco Melillo e Gabriella Chiriacò mi sono piacevolmente intrattenuto a parlare di vino, Gianfranco, esponente della Lega di Sgonigo, sta cercando di gemellare il suo paese con Pantelleria al fine di migliorare la condizione degli agricoltori di entrambe le località. I coniugi Melillo sono esperti conoscitori dell’isola in quanto, turisti da diversi anni, possiedono casa a Pantelleria. Diversi sono i motivi di sofferenza degli agricoltori panteschi, il più macroscopico risulta essere sicuramente il ridimensionamento o la chiusura, avvenuta circa 6-7 anni fa, di due importanti cantine sociali: l’Enopolio e Nuova Agricoltura. Le cantine sociali di Pantelleria svolgevano l’importante ruolo di assorbire l’uva di tanti piccoli produttori i quali, oggi, venendo a mancare tale possibilità, hanno iniziato, nella migliore delle ipotesi, ad estirpare i vigneti per dedicarsi ad altro. Un vero peccato, perché, l’uva zibibbo, è un’ottima uva da tavola, spero che presto possa ritornare sulle nostre mense, a dispetto della più comoda Uva Italia, preferita dai consumatori e dai commercianti, in quanto senza semi e più resistente ai trasporti rispetto allo zibibbo.
Foto Cantina D'Ancona
Giovedì, 5 Agosto 2010
Anche questo giorno inizia con una mattinata dedicata al workshop, in particolare, Saverio ci ha illustrato la preparazione del cannolo con la ricotta e del bicchierino pantesco Salammbò, di sua invenzione, in onore del passito realizzato dall’avvocato milanese Salvatore Armenio, da molti anni attivo a Pantelleria con la sua Azienda Agricola Ficodindia. Saverio ha studiato una mousse al cioccolato fondente, realizzata con un cru cubano, accoppiato con una meringa alla mandorla e ad una gelatina di passito.
CANNOLO SICILIANO
PER LA SCORZA:
kg.1 farina pl 165 (va bene la doppio zero) - gr 150 zucchero semolato - gr. 100 strutto - gr. 125 aceto di vino bianco - gr. 15 cacao in polvere - gr. 100 acqua - gr. 50 succo di limone fresco - gr. 25 di caffè espresso - n. 1 uovo
PER LA CREMA DI RICOTTA:
come per la cassata
ZUCCHERO A VELO
CANDITI D'ARANCIA
STRUTTO PER FRIGGERE
BICCHIERINO PANTESCO SALAMMBO'
PER LA CREMA INGLESE DI BASE:
gr.250 panna 35% - gr. 250 latte intero - gr. 100 tuorli d'uovo - gr. 50 zucchero semolato
PER IL BISCOTTO ALLA MANDORLA:
gr. 250 albumi d'uovo - gr. 500 zucchero semolato - gr. 500 farina di mandorla - essenza di mandorla
PER LA MOUSSE DI CIOCCOLATO FONDENTE:
gr. 600 di crema inglese di base - gr. 900 panna 35% - gr. 700 cioccolato fondente 55%
PER IL GELEE' DI PASSITO DI PANTELLERIA:
Lt. 1 di vino passito - gr. 4 colla di pesce
FOGLIAME DI MANDORLA TOSTATA PER DECORAZIONE
Foto della seconda giornata di Workshop
In serata, finalmente, giunge l’ora di assaporare la cassata preparata il giorno prima, è risaputo che, tale dolce, va assolutamente lasciato riposare almeno 24 ore prima di essere consumato, ma anche gli altri dolci, i cannoli, il gelo di cantalupo e la mousse Salammbò. Il luogo che ci ha ospitati è stato il bellissimo anfiteatro di casa Armenio, situato in contrada Khamma, realizzato interamente in pietra lavica dell’isola e con una splendida vista sul mare, si è rivelato essere molto suggestivo. Durante la serata, aperta al pubblico, ho intervistato l’Avv.Armenio e Caterina D’Ancona, per poi passare a citare i due libri: “Passito di Pantelleria” e “L’assaggiatrice”. Il primo libro, edito da Pacini, come già ho scritto in precedenza, è scaturito direttamente dalla tesi di laurea di Caterina D’Ancona. Nel secondo libro, invece, della scrittrice palermitana Giuseppina Torregrossa ed edito da Rubattino, si elencano delle comuni ricette, in prevalenza palermitane, seguite però da una preparazione più lunga del solito che fonde cibo e sesso. Infine, il cantastorie Paolo Zarcone, ha chiuso la serata con le sue cantate siciliane. Paolo, trentaduenne di Bagheria in provincia di Palermo, sin da piccolo strimpellava la chitarra e, dopo una breve esperienza con la musica rock, ha una vera e propria illuminazione dopo il suo incontro con il poeta bagherese Ignazio Buttitta, spostandosi così dal rock al folk e in particolare sull’antichissima arte del cantastorie.
Foto prima degustazione
Venerdì, 6 Agosto 2010
Nell’ultimo giorno di workshop Saverio D’Anna è stato sostituito da Teresa Gabriele, pantesca Doc della contrada di Khamma, la quale ha preparato, sempre coadiuvata dai partecipanti al corso, due dolci tipici di Pantelleria: i mostaccioli e i ravioli. I primi sono stati preparati con una sottilissima sfoglia che racchiudeva una semola di grano, come quella usata per incocciare il couscous, cotta nello sciroppo di zucchero; ma la parte più importante della loro preparazione consiste nella decorazione, con tagliuzzamento, della pasta, formando così artistici disegni sulla superficie dei dolcetti. I secondi, invece, sono stati preparati sempre con una sottile sfoglia che questa volta però racchiudeva un cuore di crema di latte; una volta ben chiuso il raviolo è stato fritto in abbondante olio.
Foto della terza giornata di Workshop
Anche i dolci panteschi, durante la serata all’anfiteatro dell’Avv.Armenio, sono stati opportunamente degustati dai presenti e accompagnati da due ottimi prodotti della cantina Donnafugata: il moscato Kabir e il passito Ben Ryè. Dopo una breve presentazione dell’azienda da parte di Laura Ellwanger, stavolta non senza gaffe da parte mia, complice la fame e il sonno accumulati, è iniziata la degustazione che è stata poi seguita, come di consueto, dal cantastorie Paolo Zarcone.
Foto seconda degustazione
Sabato, 7 Agosto 2010
Sabato, come da appuntamento precedentemente concordato, ho trascorso tutta la mattinata alla cantina Donnafugata. Per l’occasione ho potuto testare il servizio pubblico di autobus dell’isola che, grazie al ridotto traffico, funziona alla perfezione rispettando gli orari di passaggio dichiarati, tranne che per alcune linee delle quali bisognerebbe, secondo me, aumentare la frequenza.
Masetta Di Lorenzo, palermitana, di stage presso Donnafugata, mi ha ben accolto accompagnandomi durante tutta la visita alle vigne e al “giardino pantesco”. L’azienda ha infatti ristrutturato, a sue spese, una vecchia struttura composta da un solo albero di arance circondato da un muro alto circa quattro metri; questo è il cosiddetto “giardino pantesco”, escogitato dagli arabi per migliorare lo sfruttamento delle acque. Grazie alla forma circolare della costruzione che racchiude il giardino, di solito costituito da un solo albero, il terreno all’interno non è mai completamente esposto al sole, inoltre, i muri, sono spessi e costruiti con il sistema pantesco, utilizzato sia per i muretti che per le abitazioni, consistente in un doppio muro di pietre laviche disposte a secco con l’intercapedine centrale riempita di pietra pomice. per un totale di spessore che può arrivare anche ai due metri. Tale muro esercita un’isolamento termico elevato con l’esterno impedendo così la fuga dell’umidità e della frescura interna al giardino e consentendo il massimo sfruttamento della rugiada notturna. Il “giardino pantesco” di Donnafugata è l’unico ad essere aperto al pubblico dei 500 attualmente presenti sull’isola, di cui solo il 25% attivi, ed è costantemente oggetto di studio da parte dell’università di Palermo, inoltre dopo averlo restaurato è stato donato, dall’azienda, al FAI, Fondo Ambiente Italiano.
Durante la visita alle vigne ho potuto ammirare, per la prima volta, una vecchissima vite con “piede franco”, una vera rarità ormai. In Europa, durante il 1800, un’epidemia di fillossera, parassita della radice della vite, distrusse quasi tutti i vigneti, quelli americani, invece, poiché più resistenti alla malattia, si salvarono. Gli agricoltori, quindi, impiantarono la radice della vite americana e vi innestarono sopra le varietà europee. Oggi si usa il termine “piede franco” per indicare una vite che non è stata innestata sulla radice americana e che quindi alberga ancora nella radice originaria. Evidentemente, essendo Pantelleria un’isola, il parassita non ha avuto modo di arrivarvi salvando così i vigneti e rendendo inutile il reimpianto sul piede americano. Inoltre sull’isola, si verifica il raro fenomeno della seconda fioritura dello zibibbo, la prima vendemmia, ad agosto, produce acini più zuccherini, mentre la seconda, nel mese di settembre, ha meno contenuti in zucchero e quindi, secondo me ingiustamente, spesso non si effettua a causa delle presunte minori qualità organolettiche dell’uva. L'azienda Donnafugata, presente dal 1989 a Pantelleria, oggi possiede circa 68 ettari di terreno vitato, in parte di proprietà e in parte in gestione, costituendo così la più grande realtà vitivinicola dell'isola con il controllo diretto dei vigneti. A questi 68 ettari bisogna aggiungere i 260 posseduti in Sicilia capitanati dalla zona di eccellenza di Contessa Entellina.
Con Laura Ellwanger, ennesima tedesca sul suolo pantesco, ho invece visitato la cantina, costituita da modernissimi impianti, per poi seguire con la degustazione di un olio e di alcune etichette di vino.
Milleanni: è un olio extravergine di oliva di nocellara del Belìce, biancolilla e cerasuola, dal profumo inconfondibile di carciofo, segno che la nocellara e la cerasuola era in buone quantità, in sofferenza l'ammandorlato della biancolilla. Stranamente povero di polifenoli, ma su ciò mi riservo altre occasioni di degustazione in quanto non conosco il tipo di conservazione della bottiglia e soprattutto ignoro l'anno di molitura.
Polena: un catarratto e viognier affinato in acciaio, dalle piacevoli note agrumate al naso e con una piacevole acidità in bocca.
Lighea: qui torniamo a Pantelleria, infatti l'uva è lo zibibbo, affinato in acciaio, sviluppa al naso i tipici fiori bianchi con un finale vanigliato fino allo zenzero, in bocca è pieno e piacevole, acidità moderata e mai abboccato. il Lighea viente prodotto in circa 100.000 bottiglie.
La Fuga: ed ecco lo chardonnay di Contessa Entellina, quello famoso per la sua vendemmia notturna, affinato in vasca e in bottiglia, al naso dimostra tutti i suoi potenti fiori bianchi tendenti alla frutta esotica, in bocca un'ottima acidità che lascia spazio ad una insospettabile sapidità, come si suol dire, un vino minerale !
Kabir: il moscato di Pantelleria di Donnafugata è affinato in acciaio e in bottiglia, manifesta subito al naso l'inconfondibile profumo dello zibibbo, ed ecco la zagara che sconfina nell'uva passa poi, passando in bocca, viene confermato tutto, senza alcuna stucchevolezza grazie all'acidità che pulisce la sua indiscutibile nota dolce. Il Kabir viene prodotto in circa 35.000 bottiglie.
Ben Ryè: affinato in vasca e lungamente in bottiglia, è da molti considerato uno dei migliori passiti dell'isola, al mio naso, ha subito sprigionato tutta la sua albicocca e il suo miele annunciante la probabile stucchevolezza, in bocca invece, in quest'annata 2008, una discreta acidità ha ripulito la lingua dalle potenti note passite. Come riferitomi da Laura, la quantità di uva passa, sgrappolata a mano e aggiunta al mosto per la macerazione, è di circa 70 kg ogni 100 lt di vino. Il Ben Ryè viene prodotto in circa 60.000 bottiglie.
Foto Cantina Donnafugata
Domenica, 8 Agosto 2010
Finalmente un giorno di vacanza, ma si fa solo per dire in quanto, Caterina D’Ancona, mi aveva in precedenza invitato a fare trekking alla scoperta di una grotta segreta ! Il percorso non era particolarmente difficile e si è snodato lungo la cresta a circa 400 mt e poi fino giù, nel crepaccio del Gelfiser, la "montagna spaccata", ma ha richiesto un certo impegno. In fondo a questo piccolo canyon, in effetti, siamo infine arrivati all’ingresso di una grotta che in pochi avevano avuto il privilegio di visitare, come ci ha raccontato l’amico guida Giovanni Bonomo, detto Microcio, granchio di mare. Giovanni è quindi partito con i suoi affascinanti racconti fatti di camere di roccia, di cunicoli, di spade normanne e di briganti che anticamente albergavano nella grotta. Naturalmente nessuno dei presenti, Franco, Mia, Nicola, Anna, Nuccio, Sara e Caterina, ha avuto il consenso, da parte di Giovanni, di entrare nella caverna, infatti in passato più di un visitatore ci ha lasciato le penne a causa della pericolosità della grotta e della scarsa preparazione speleologica. Giovanni, invece, accompagna regolarmente, all’interno della grotta, studiosi e speleologi rimanendo sempre molto geloso del percorso che porta al suo ingresso, facendo in modo che rimanga sconosciuto ai più in modo da preservare l'ambiente. Tornati al dammuso di Caterina mi sono infine cimentato, sfruttando gli ingredienti disponibili, nella realizzazione degli “Spaghetti Caterina” ovvero, spaghetti, pomodoro, capperi e menta fresca; inventati al momento, giusto per sfamare gli allegri compagni di trekking. Dai piatti vuoti mi è sembrato avessero gradito, ma devo ammettere che la fame mi è stata complice. Mentre cucinavo, ho scoperto i capperi sottaceto di Caterina, a me di solito avulsi, i suoi, invece, erano delicatissimi, infatti non erano stati acquistati bensì preparati da mamma Angela. In mancanza di essi sarò costretto a tornare all’uso di quelli salati oppure a metterli sottaceto da me !
Lunedì, 9 Agosto 2010
La mia esperienza pantesca finisce con un rumorosissimo ATR42, aereo bimotore ad elica, che mi ha riportato a casa assieme al bilancio dei sette giorni trascorsi.
Prima di partire qualcuno mi aveva avvisato della poca cordialità e la diffidenza dei panteschi, io, da ignorante, ho creduto che fosse vero, anche perché altre voci sugli abitanti di Pantelleria li dipingevano come irascibili e scontrosi persino tra di loro. Dopo aver trascorso una settimana e aver conosciuto alcuni panteschi Doc, devo assolutamente sfatare questi luoghi comuni. Anche se sconosciuto, da essi, sono stato accolto con riguardo e cordialità, molto meglio dei palermitani dell’isola. Solo grazie ai panteschi mi sono sentito a casa, mi hanno inserito sin da subito tra di loro e sono ripartito con disinteressate e sincere amicizie. Pantelleria ha un turismo diverso da quello cui siamo abituati in Sicilia, infatti ho conosciuto numerosi stranieri che vivono e lavorano sull’isola per scelta, altri invece, ci abitano per alcuni mesi poichè hanno comprato casa; al contrario del turismo di massa mordi e fuggi, foriero di ricchezza e sviluppo ma anche di grandi problematiche, il turismo “UHT”, come lo chiamo io, (a "lunga scadenza") è sicuramente meno redditizio di quello breve ma in compenso provoca meno danni all’ambiente e alla vivibilità del territorio. Tedeschi, trentini, piemontesi, romani, milanesi, friulani, a Pantelleria c’è molto nord Italia, rappresentato da affezionati visitatori, probabilmente fulminati dalle selvagge bellezze dell’isola. Unico neo del pantesco è la guida, sfrecciano infatti con le loro auto a velocità elevata tra le piccole e anguste stradine dell'isola, spesso delimitate dai classici muretti panteschi, letteralmente schivando all'ultimo momento le auto che provengono in senso contrario; sarebbe il caso di istituire una patente "P", con esami specifici, destinata ad abilitare alla circolazione nelle strade di Pantelleria ! Il clima fresco, a dispetto della sua vicinanza al continente africano ed al mese di Agosto, ha reso vivibili tutti i giorni della mia permanenza; la particolare orografia dell’isola che spazia dal mare alla montagna, che si eleva fino agli 800 mt sovrastando il cristallino lago di Venere, la rendono meta di poliedriche vacanze; sicuramente un’isola sulla quale ritornare non solo per il suo passito.
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Capperi, che Zibibbo !
Lunedì, 2 Agosto 2010
Il modo più ideale per raggiungere l’isola di Pantelleria, per un comodista come sono io, è sicuramente l’aereo, in poco meno di 50 minuti, grazie ad un veloce MD80, ci si ritrova teletrasportati in un territorio arabo-lunare. La natura prettamente vulcanica dell’isola ricorda alcune zone intorno all’Etna dove l’ingegno umano è stato sopraffatto dalla nerissima roccia vulcanica utilizzata come materiale da costruzione praticamente per qualsiasi cosa, da ciò deriva il caratteristico paesaggio lunare interrotto soltanto dalle contrastanti bianchissime cupole dei dammusi, che sembrano sorgere dal mare lavico che le circonda, lo spazio rimasto tra le rocce e le cupole è occupato dalle piante di cappero e dalle viti ad alberello basso, cariche di dorato e inebriante zibibbo che ho immediatamente assaggiato direttamente dalle piante presenti a casa di Emilia Machì, organizzatrice del workshop di pasticceria “Dolci Sapori Siciliani”; senza dimenticare le numerose erbe aromatiche che crescono spontanee perfino sui cigli delle strade, come il finocchio ingranato, il rosmarino, la lavanda e il finocchietto selvatico, queste sono solo quelle che sono riuscito a riconoscere. Il dammuso che mi è stato affittato da Giovanni Siragusa, ristrutturato, con tutti i comfort e soprattutto pulitissimo, era veramente incantevole, godeva di una spendida vista sul mare con la costa tunisina all’orizzonte, incastonato in quello che potremmo definire un vero e proprio park-hotel fatto di ulivi e di immancabili capperi e viti. La prima sera l’ho trascorsa a cena coi genitori di Emilia, Antonio e Antonella ma l’invito scaturito dalla loro ospitalità mi stava quasi preoccupando quando siamo arrivati all’Hotel Mursia e Cossyra; spesso, infatti, nei ristoranti degli alberghi, la cucina non è certo eccelsa e quindi temevo già per il mio palato. In verità, come poi ho potuto riscontrare coi fatti, i genitori di Emilia, sono due buongustai e non ci tenevano proprio a sfigurare con me ! In un ridottissimo menu ho scelto delle “caserecce con pesce spada e finocchietto, poi del “pesce san pietro con patate” per chiudere con una “pesca al passito”.
Ma andiamo per ordine: secondo il mio parere, un menù ridotto, è già un buon segnale ma naturalmente, per non rischiare, mi sono diretto subito sui piatti che sembravano meno elaborati e quindi con meno ingredienti. Il primo, le caserecce, mi hanno ben impressionato; le materie prime utilizzate erano sicuramente di buona qualità, lo spada doveva essere fresco o al massimo congelato a bordo, il pomodoro era gustosissimo, il finocchietto era stato sapientemente dosato, l’uso pantesco della mollica tostata con le mandorle, a decoro del piatto, lo ha indiscutibilmente impreziosito. Esattamente come piace a me, pochi ingredienti ben dosati e dai gusti perfettamente distinguibili ma in perfetta armonia tra di loro come un’orchestra ben diretta. Purtroppo c’erano anche dei difetti tecnici, come la pasta un pò scotta, ma il suo ottimo sapore di grano ne permetteva il perdono, un po’ troppo peperoncino, anche se a me piace, in un servizio in sala, forse sarebbe stato meglio tenere in conto il fatto che non a tutti potrebbe essere gradito, le bucce di pomodoro erano un po’ troppo abbondanti, altra cosa che a me piace ma che non si dovrebbe lasciare in una pietanza, infine il piatto è arrivato un po’ freddo; insomma è facile trovare qualcosa che non va in una sala con alcune decine di coperti ma sulla qualità degli ingredienti e sul risultato finale non si transige: le sensazioni gustative da me provate sono state piacevoli.
Il primo è andato benissimo ma per il secondo ? Rischiamo ? Ebbene, il secondo è stato una grande conferma, il san pietro con le patate era di una semplicità disarmante. Onore a chi a pensato questo piatto ed ha avuto l’ardire di proporlo, gli ingredienti fondamentali erano tre: filetti di san pietro, patate e un po’ di prezzemolo. Le freschezza del pesce non era descrivibile, come d’altronde la sua cottura, magistralmente eseguita, era infatti ancora turgido nonostante fosse perfettamente cotto. Probabilmente tutto ciò è stato possibile grazie ad un grande lavoro di forno con l’aiuto di qualche erba che non sono stato in grado di identificare; ma la vera sorpresa sono state le patate, anch’esse cotte a puntino e dal buonissimo gusto di… patata ! Unico neo, qualche “cofanetto di sale” sparso qua e là. Infine una semplicissima pesca, tagliata a pezzi disordinati con un goccio di passito, fresca e non stucchevole, ha liberato del tutto i miei succhi digestivi ormai appagati dall’ottima cena. Il pane era un normale filone dall’ottima farina di grano purtroppo aiutata con del normale lievito di birra e il vino era uno sfuso della cantina Enopolio, probabilmente un blend di zibibbo e catarratto, vino non degno di nota ma che ha accompagnato senza intoppi tutto il pasto.
Al bar dell’hotel, il dopo pranzo è stato però funestato, a mio parere, da un non piacevole passito, sempre della cantina Enopolio, poi però ravvivato da un fortissimo sigaro Toscano Stravecchio del sig. Antonio. Cosa può rimanere ormai da fare dopo una simile giornata di viaggio e una cena così appagante ? Ovvio, una bella dormita, la mia è stata breve ma molto proficua.
Martedì, 3 Agosto 2010
La giornata inizia bene, visita alla cantina Bukkuram di De Bartoli, situata nell’omonima contrada.Alle 8:30 vengo prelevato dal mio dammuso dall’auto di Anna Torgler, una simpatica trentina trapiantata a Pantelleria da meno di un anno che si occupa del marketing della cantina. Dopo aver conseguito il diploma di Sommelier e un master in comunicazione enogastronomica del Gambero Rosso, Anna, ha abbandonato i suoi progetti trentini a causa del suo grande amore: il passito Bukkuram di De Bartoli e naturalmente l’isola di Pantelleria.
Marco De Bartoli, ex pilota di rally, ha ereditato tanti anni fa la cantina di famiglia e ha deciso di abbandonare le corse per il vino, galeotto fu quel vino, a quel tempo il suo marsala, oggi secondo me l’unico marsala degno di tale nome. Nei primi anni 80 De Bartoli fa parlare di zibibbo e di passito in seguito alla sua collaborazione con il “Conte” Casano con il quale inizia a vinificare il passito Bukkuram che vede la luce nel 1983. Agli inizi degli anni 90, in seguito ad alcune vicende interna alla famiglia del Conte, De Bartoli acquisisce la direzione della cantina e conferma la sua filosofia pantesca sul passito, cioè realizzarlo come si faceva anticamente, preoccupandosi poco delle tendenze del mercato e molto della vigna rendendo onore al nome Bukkuram, che tradotto dall’arabo, significa “padre della vigna”. Il passito Bukkuram è l’unico ad oltrepassare sensibilmente la quantità di uva passa utilizzata nella vinificazione, la quale arriva fino al 60-65%, e viene prodotto in circa 5.000 bottiglie. La contrada Bukkuram ha un’esposizione ideale per la produzione del passito, viene infatti battuta dal caldo vento di scirocco, indispensabile per un buon risultato in bottiglia. Ma come fare quando nell 1989 De Bartoli ha deciso di fare uno zibibbo che esaltasse il territorio senza le dolcezze del passito ? impossibile utilizzare le stesse uve del Bukkuram, e allora è bastato cambiare il territorio, spostarsi a 450 metri di altezza ed esporre il vigneto ai venti di maestrale. Il risultato è stato il Pietranera, uno zibibbo sorprendente in profumi e acidità.
I due vini prodotti da De Bartoli, li ho assaggiati con sensazioni sorprendenti, soprattutto per il Bukkuram, ma andiamo per gradi e iniziamo dal Pietranera. Degustato nell’annata 2009, il Pietranera, ha confermato in pieno l’origine del suo nome, fiori bianchi ma anche grande sapidità che spiccava già al naso più che in bocca dove però la rotonda sapidità faceva il resto.
A primo naso, invece, il Bukkuram 2006, mi ha ricordato un pò’ il Marsala, sarà stato un condizionamento dovuto al fatto che De Bartoli produce un ottimo, secondo me il migliore, marsala come il “Vecchio Samperi”, oppure le botti usate per il Bukkuram erano state riutilizzate da precedenti affinamenti di marsala, oppure come ultima possibilità, considerando il lungo affinamento del passito di De Bartoli, che arriva fino ai due anni e mezzo, si sono sviluppati dei processi ossidativi simili a quello del marsala ? Tre ipotesi difficili da confutare. Altra particolarità che salta al naso è il forte sentore di uva passa tostata che dal naso, poi, passa in bocca dove, acidità e dolcezza, si fondono in modo armonico per accompagnare ancora una volta la solita mandorla tostata che, puntuale, si ripresenta anche in bocca. Alla fine, a bicchiere vuoto, ecco qualche erba balsamica, rosmarino quello più distinguibile. Durante la mia visita alla cantina di De Bartoli ho conosciuto, Alessandro Bonomo, chef del ristorante-pizzeria ‘Oasi di Venere”, gestito dallo stesso e dalla sorella Rosaria. La cucina di Alessandro è interessante, si avvicina al mio ideale, una cucina pantesca quindi ricca di prodotti del territorio accoppiati con semplicità senza mancare di rivisitazione, rimanendo sempre nell’ambito locale, senza contaminazione di prodotti lontani. Sicuramente un locale da approfondire.
Che si fa si pomeriggio ? Che domande, si scopre una cantina giovane e poco conosciuta come quella di Fabrizio Basile, sempre a Bukkuram, proprio di fronte a De Bartoli.
Fabrizio è figlio d’arte, il padre Gaetano, infatti, coltivava le viti e portava la propria uva passa alle cantine che ne facevano richiesta, un giorno del 1995, però, quest’uva viene rifiutata, allora, stizzito, decide di cominciare a vinificare in proprio. Fabrizio, allora quindicenne, segue subito le orme del padre e si appassiona talmente tanto da dedicarsi completamente al passito.Fabrizio inizia da autodidatta, un po’ enologo e un po’ agronomo, il suo passito nasce da tante esperienze negative e molte prove, si potrebbe definire un passito empirico poiché è proprio questo l’approccio che è stato usato nella sua preparazione. La moglie milanese di Fabrizio, Simona, lo coadiuva in questa impresa del vino, aiutandolo nell’ azienda oggi costituita da un dammuso e circa sette ettari di terreno vitato. La produzione è di circa 5.000 – 7.000 bottiglie con una buona potenzialità di aumento, i canali di vendita sono dei distributori del nord-Italia ma anche e soprattutto vero enoturismo direttamente in cantina, sempre aperta ai clienti di passaggio.
La degustazione si è svolta con l’ausilio di ottimi formaggi selezionati dai Basile e provenienti dall’area di Santa Ninfa in provincia di Agrigento. Primo sale, e primo sale con pistacchio, entrambi di circa un mese, poi, un pecorino al vino di circa quattro mesi, per chiudere con una buonissima caprese. Ho iniziato con uno zibibbo del 2009 chiamato Sorelle Luna, una Doc Pantelleria bianco, fresco di fiori bianchi ma anche di miele al naso e piacevolmente acido in bocca senza nessun accenno di dolcezza come però era stato promesso al naso. Il Passito, invece, uno Shamira 2007 appena imbottigliato, appena portato al naso rivela un’insolita vena salmastra per chiudere con delle mandorle leggermente tostate e miele, poi, in bocca, la mandorla tostata esplode con un lunghissimo finale, la sua dolcezza non sconfinava mai nella stucchevolezza. Per completare l’opera, Fabrizio, mi ha portato anche un bicchiere dello stesso passito ma imbottigliato un anno e mezzo prima e, devo ammettere, che la differenza si notava parecchio; al naso risultava più albicocca e uva passa con tostatura, in bocca, invece, era abbastanza simile al precedente mantenendo la stessa grande tostatura e il piacevole contrasto acidità-dolcezza.
Mercoledì, 4 Agosto 2010
Finalmente inizia la prima giornata di workshop, presso lo Zubebi Resort di Eraldo Siri, altro “straniero” trapiantato a Pantelleria. Eraldo infatti è originario di Alba, in provincia di Cuneo, in pieno Piemonte, ma nel 2004 conosce Pantelleria e rapito dall’isola apre lo Zubebi Resort. In cucina, invece, ho trovato Alba Maria Vetri, originaria di Teramo, ex analista informatica, ha girato il mondo cucinando un po’ dappertutto ma le influenze maggiori gli provengono sicuramente dal Venezuela, dove ha abitato per un certo periodo di tempo, da Roma e dalla sua regione di origine Abruzzo. Anche la sua cucina è molto “pulita”, infatti Alba, prepara tutto al volo, con materie prime fresche e pochi ingredienti.
Il workshop di è svolto dalle 9:30 fino alle 13:30 con un docente d’eccezione da me ben conosciuto, Saverio D’Anna. Saverio è un figlio d’arte, sin dalla tenerà età ha frequentato la pasticceria del padre che in seguito erediterà. Anche lui ha girato il mondo, ma ha lavorato soprattutto in Francia dove ha anche ricoperto incarichi prestigiosi. Scomparso il padre è dovuto ritornare nella sua Palermo per mandare avanti il ben avviato Bar Pasticceria Albatro. Saverio è anche presidente, nonchè uno dei fondatori, dell’associazione ASPEC che raccoglie i cuochi e i pasticcieri siciliani che operano nel rispetto delle materie prime e della tracciabilità delle stesse.
Il dolci realizzati, con l’attiva collaborazione del pubblico, sono stati la “cassata siciliana”, nella sua espressione più classica, ed un innovativo “gelo di cantalupo”, profumatissimo melone coltivato nella Sicilia occidentale.
Il pomeriggio l’ho dedicato tutto alla cantina D’Ancona, una delle più storiche dell’isola. Infatti, Caterina D’Ancona, insieme alla sorella Sara ed alla mamma Angela, mi hanno raccontato l’avvincente storia della famiglia. L’enologo Salvatore D’Ancona, nonno di Caterina e Sara, impianta una cantina già nel 1920 e comincia a imbottigliare il passito. Bisogna considerare che, in Sicilia, non si è mai imbottigliato molto, anzi, la quasi totalità del vino prodotto, soprattutto a quell’epoca, era venduta come sfuso o come cosiddetto vino da taglio. Bisognerà arrivare agli anni 80 e all’opera meritoria del sig.Ignazio Miceli affinché fosse recepito il concetto di imbottigliamento e di qualità del vino da parte delle cantine produttrici siciliane. Il nonno di Caterina e Sara, quindi è da considerare un grande precursore di uno sviluppo della vitivinicoltura che è iniziato negli anni 80 e ancora, ad oggi, non si è concluso; anche se si è di recente raggiunto il grande traguardo del 50% sfuso e del 50% imbottigliato. Nel 1963, a Salvatore D’Ancona, subentra il figlio Antonio, papa di Caterina e Sara, precursore anch’esso, nei gloriosi anni 60, dell’enoturismo, della vendita in cantina e anche per corrispondenza. Caterina, trovandosi principalmente coinvolta in cantina, dopo una laurea in letteratura che l’ha portata all’insegnamento in una scuola Pisana, ha deciso di tornare sui libri e di laurearsi in viticoltura e enologia. Ma un giorno, arrivata alla fine del suo persorso di studi, incontra il toscano Giacomo Tachis, forse il più conosciuto enologo italiano, e gli chiede se può seguirla nella sua tesi di laurea, naturalmente sull’argomento “passito”. Tachis, entusiasta del territorio pantesco, accetta e addirittura spinge Caterina a tradurre la tesi in un vero libro sul passito, all’epoca ancora mancante. Ed ecco che, nel 2005, vede la luce “Passito di Pantelleria”, un libro con un titolo, secondo me fuorviante, infatti il pregevole libro parla quasi per metà della storia e del territorio dantesco, poi affronta il vino e il passito, per poi chiudere addirittura coi dolci tipici di Pantelleria, fornendone persino ingredienti, preparazione e splendide fotografie. Insomma un vero volumetto che l’appassionato dell’isola non può fare a meno di leggere, forse il titolo più adeguato sarebbe stato “Pantelleria e il suo passito”. In questo libro, Caterina, tradisce il suo amore per l’isola e per le sue tradizioni, lasciando scoprire tutta la passione che mette nella produzione del suo vino. In cantina però anche la mamma di Caterina e Sara ha recentemente avuto un’importantissimo ruolo, famiglia schiva da fiere e manifestazioni penso che cambierà atteggiamento adesso che nonna Angela ha spedito, per caso, una bottiglia al Concorso Mondiale di Bruxelles, mostra itinerante che recentemente si è svolta a Palermo; il risultato si è concretizzato con un’ambita medaglia d’oro. In un mondo di passiti fortemente caratterizzati e personalizzati quello di D’Ancona, secondo me, si è distinto per equilibratura, così ha procurato consensi tra i giudici del concorso, portando a casa l’importante riconoscimento.
Ho quindi assaggiato il passito D’Ancona, chiamato Cimillya, nome derivato dall’omonima località. Il vino al naso sprigiona albicocca e miele, in bocca è pienamente dolce ma non stucchevole ed è perfettamente bilanciato dalla sua piacevole nota acida. Un passito molto classico, ben bilanciato e profumato, senza arzigogoli particolari e salti mortali fatti in cantina. Le sorelle D’Ancona producono anche un moscato Doc e un vino rosso da uve perticone, purtroppo entrambe terminati, neanche una bottiglia rimasta per a degustazione.
Alla Cantina D’Ancona ho anche conosciuto due simpatici coniugi, affezionati turisti di Pantelleria; originari del comune di Sgonico, in provincia di Trieste, con Gianfranco Melillo e Gabriella Chiriacò mi sono piacevolmente intrattenuto a parlare di vino. Gianfranco, esponente della Lega del suo comune, sta cercando di gemellare il suo paese con Pantelleria al fine di migliorare la condizione degli agricoltori di entrambe le località. I coniugi Melillo sono esperti conoscitori dell’isola in quanto, turisti da diversi anni, possiedono casa e auto a Pantelleria che per loro è diventata una seconda casa. Diversi sono i motivi di sofferenza degli agricoltori danteschi, il più macroscopico risulta essere sicuramente il ridimensionamento o la chiusura, avvenuta circa 6-7 anni fa, di due importanti cantine sociali: l’Enopolio e Nuova Agricoltura. Le cantino sociali di Pantelleria svolgevano l’importante ruolo di assorbire l’uva di tanti piccoli produttori i quali, oggi, venendo a mancare tale possibilità, hanno iniziato, nella migliore delle ipotesi, ad estirpare i vigneti per dedicarsi ad altro. Un vero peccato, perché, l’uva zibibbo, è un’ottima uva da tavola, spero che presto possa ritornare sulle nostre mense, a dispetto della più comoda Uva Italia, preferita dai consumatori e dai commercianti, in quanto senza semi e più resistente ai trasporti rispetto allo zibibbo.
Giovedì, 5 Agosto 2010
Anche questo giorno inizia con una mattinata dedicata al workshop, in particolare, Saverio ci illustra la preparazione del cannolo con la ricotta e una mousse, di sua invenzione, chiama Salammbò, in onore di un passito realizzato dall’avvocato milanese Armenio, da anni attivo a Pantelleria con la sua Azienda Agricola Ficodindia. Saverio ha studiato una mousse al cioccolato fondente, un cru cubano, accoppiato con una meringa alla mandorla e ad una gelatina di passito.
In serata, finalmente, giunge l’ora di mangiare la cassata preparata il giorno prima, è risaputo che, tale dolce, va assolutamente lasciato riposare almeno 24 ore prima di essere consumato, ma anche gli altri dolci, i cannoli, il gelo di cantalupo e la mousse Salammbò.
Il luogo che ci ha accolti è stato il bellissimo anfiteatro di casa Armenio, situato in contrada Kamma, realizzato interamente in pietra lavica dell’isola e con una splendida vista sul mare, si è rivelato essere molto suggestivo.
La serata, aperta al pubblico, mi ha visto intervistare l’Avv.Armenio e Caterina D’Ancona, per poi citare i due libri: “Passito di Pantelleria” e “L’assaggiatrice”.Il primo libro, edito da Pacini, come già ho scritto in precedenza, è scaturito direttamente dalla tesi di laurea di Caterina D’Ancona. Nel secondo libro, invece, della scrittrice palermitana Giuseppina Torregrossa ed edito da Rubattino, si elencano delle normali ricette, in prevalenza palermitane, seguite però da una preparazione che fonde cibo e sesso.
Infine il cantastorie Paolo Zarcone ha chiuso la serata con le sue cantate siciliane. Paolo, trentaduenne di Bagheria in provincia di Palermo, strimpellava la chitarra sin da piccolo e, dopo un breve incontro con la musica rock, ha una vera e propria illuminazione dopo il suo incontro con il poeta bagherese Ignazio Buttitta, spostandosi così dal rock al folk e in particolare sull’antichissima arte del cantastorie.
Venerdì, 6 Agosto 2010
Nell’ultimo giorno di workshop Saverio D’Anna è stato sostituito da Teresa Gabriele, pantesca Doc della contrada di Kamma, la quale ha preparato, sempre coadiuvata dai partecipanti al corso, due dolci tipici di Pantelleria: i mostaccioli e i ravioli.
Anche questi dolci, durante la serata all’anfiteatro dell’Avv.Armenio, sono stati opportunamente degustati dai presenti e accompagnati da due ottimi prodotti della cantina Donnafugata: il moscato Kabir e il passito Ben Ryè. Dopo una breve presentazione dell’azienda da parte di Laura Ellwanger, stavolta, complice la fame e il sonno, non senza gaffe da parte mia, è iniziata la degustazione che è stata poi seguita, come di consueto, dal cantastorie Paolo Zarcone.
Sabato, 7 Agosto 2010
Come da appuntamento precedentemente concordato ho trascorso tutta la mattinata alla cantina Donnafugata. Per l’occasione ho potuto testare il servizio pubblico di autobus dell’isola che, grazie al ridotto traffico, funziona alla perfezione rispettando gli orari di passaggio dichiarati, tranne che per alcune linee delle quali bisognerebbe, secondo me, aumentare la frequenza.
Masetta Di Lorenzo, palermitana di stage presso Donnafugata, mi ha accolto accompagnandomi durante la visita alle vigne e al “giardino pantesco”. L’azienda ha infatti ristrutturato, a sue spese, una vecchia struttura composta da un solo albero di arance circondato da un muro alto circa quattro metri; questo è il cosiddetto “giardino pantesco” escogitato dagli arabi per migliorare lo sfruttamento delle acque. Grazie alla forma circolare della costruzione che racchiude il giardino, di solito costituito da un solo albero, il terreno all’interno non è mai completamente esposto al sole, inoltre, i muri, sono spessi e costruiti con il sistema pantesco, utilizzato sia per i muretti che per le abitazioni, consistente in un doppio muro di pietre laviche disposte a secco con l’intercapedine centrale riempita di pietra pomice. Tale muro esercita un’isolamento termico elevato con l’esterno impedendo così la fuga dell’umidità e della frescura interna al giardino e consentendo il massimo sfruttamento della rugiada notturna. Il “giardino pantesco” di Donnafugata è l’unico ad essere aperto al pubblico dei 500 attualmente presenti sull’isola, di cui solo il 25% attivi, ed è costantemente oggetto di studio da parte dell’università di Palermo, inoltre dopo averlo restaurato è stato donato, dall’azienda, al FAI, Fondo Ambiente Italiano.
Durante la visita alle vigne ho potuto ammirare, per la prima volta, una vite con “piede franco”, una vera rarità ormai. In Euopa, durante il 1800, un’epidemia di fillossera, parassita della radice della vite, distrusse quasi tutti i vigneti, quelli americani, invece, poiché più resistenti alla malattia, si salvarono. Gli agricoltori, quindi, impiantarono la radice della vite americana e vi innestarono sopra le varietà europee. Oggi si usa il termine “piede franco” per indicare una vite che non è stata innestata sulla radice americana e che quindi alberga ancora nella radice originaria. Evidentemente, essendo Pantelleria un’isola, l’epidemia di fillossera non ha avuto modo di arrivarvi salvando così i vigneti e rendendo inutile il reimpianto sul piede americano. Inoltre sull’isola, si verifica il raro fenomeno della seconda fioritura dello zibibbo, la prima vendemmia, ad agosto, produce acini più zuccherini, mentre la seconda, nel mese di settembre, ha meno contenuti in zucchero e spesso non si effettua a causa delle minori qualità organolettiche dell’uva.
Con Laura Ellwanger, ennesima tedesca sul suolo pantesco, ho invece visitato la cantina, costituita da modernissimi impianti, per poi seguire con la degustazione di alcune etichette.
Ho iniziato con
Domenica, 8 Agosto 2010
Finalmente un giorno di vacanza, si fa per dire, in quanto Caterina D’Ancona mi aveva invitato a fare trekking alla scoperta di una grotta segreta ! Il percorso non era particolarmente difficile e si è snodato lungo la cresta e poi nel crepaccio del Gelfiser, la montagna verde, ma ha richiesto un certo impegno. In fondo a questo piccolo canyon, in effetti, siamo infine arrivati all’ingresso di una grotta che in pochi avevano avuto il privilegio di visitare, come ci ha raccontato l’amico guida Giovanni Bonomo, detto Microcio dal nome dell’omonimo granchio. Giovanni è quindi partito con i suoi affascinanti racconti fatti di camere di roccia, di cunicoli, di spade normanne e di briganti che anticamente albergavano nella grotta. Naturalmente nessuno dei presenti, Franco, Mia, Nicola, Anna, Nuccio, Sara e Caterina, ha avuto il consenso, da parte di Giovanni, di entrare nella caverna, infatti in passato qualcuno ci aveva già lasciato le penne a causa della pericolosità della grotta e della propria scarsa preparazione. Giovanni accompagna regolarmente, all’interno della grotta, studiosi e speleologi rimanendo sempre molto geloso di quel percorso e facendo in modo che rimanga sconosciuto ai più.
Tornati al dammuso di Caterina mi sono infine cimentato, sfruttando gli ingredienti disponibili, nella realizzazione degli “Spaghetti Caterina” ovvero, spaghetti, pomodoro, capperi e menta fresca; inventati al momento, giusto per sfamare gli allegri compagni di trekking. Dai piatti vuoti mi è sembrato avessero gradito, ma devo ammettere che la fame mi è stata complice. Mentre cucinavo, ho scoperto i capperi sottaceto di Caterina, a me di solito avulsi, i suoi, invece, erano delicatissimi, infatti non erano stati acquistati bensì preparati da mamma Angela. In mancanza di essi sarò costretto a tornare all’uso di quelli salati oppure a metterli sottaceto da me !
La mia esperienza pantesca finisce con un rumorosissimo ATR42, aereo bimotore ad elica, che mi ha riportato a casa lasciandomi finalmente solo con il mio bilancio dei sette giorni trascorsi. Prima di partire qualcuno mi aveva avvisato della poca cordialità e la diffidenza dei panteschi, io, da ignorante, ho creduto che fosse vero, anche perché altre voci sugli abitanti di Pantelleria li dipingevano come irascibili e scontrosi persino tra di loro. Dopo aver trascorso una settimana e aver conosciuto alcuni panteschi Doc, devo assolutamente sfatare questi luoghi comuni. Anche se sconosciuto, da essi, sono stato accolto con riguardo e cordialità, molto meglio dei palermitani dell’isola. Grazie ai panteschi mi sono sentito a casa, mi hanno inserito sin da subito tra di loro e sono ripartito con disinteressate e sincere amicizie.
Pantelleria ha un turismo diverso da quello cui siamo abituati in Sicilia, infatti ho conosciuto numerosi stranieri che vivono e lavorano sull’isola per scelta, altri invece, ci abitano per alcuni mesi avendo comprato casa, al contrario del turismo di massa mordi e fuggi, foriero più di problematiche che di ricchezza e sviluppo; il turismo “UHT” è sicuramente meno redditizio di quello settimanale ma almeno provoca meno danni all’ambiente e alla vivibilità del territorio. Tedeschi, trentini, piemontesi, romani, friulani, a Pantelleria c’è molto nord Italia, rappresentato da affezionati visitatori fulminati dalle selvagge bellezze dell’isola.
Il clima fresco, a dispetto della sua vicinanza al continente africano ed al mese di Agosto, ha reso vivibili tutti i giorni della mia permanenza; la particolare orografia dell’isola che spazia dal mare alla montagna, che si erige fino agli 800 mt sovrastando il cristallino lago di Venere, la rendono meta di poliedriche vacanze; sicuramente un’isola sulla quale tornare.
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